L’importanza
che le Ipab hanno nel sistema dei servizi territoriali alla persona è
inversamente proporzionale alla qualità dell’attenzione posta in
questi anni dal legislatore su di esse e sulle loro potenzialità di
intervento. Sono passati quasi quindici anni da quando la legge 328
di riforma dell’assistenza abrogava definitivamente il modello
della vecchia legge Crispi del 1890, caratterizzato dalla concezione
dell’assistenza sociale in termini di beneficienza e della
discrezionalità degli interventi, per sostituirlo con il nuovo
impianto normativo, fondato sul principio costituzionale che
l’assistenza è diritto del cittadino a fruire dei servizi sociali
aventi un determinato standard qualitativo, nel rispetto dei
parametri di accesso fissati dalle singole autorità competenti.
In
questi quindici anni le Ipab – o meglio le ex-Ipab – secondo
quanto previsto dal D. Lgs. 207/2001 (la legge delega al governo in
materia di riordinamento del sistema delle Ipab, contenuta nella
legge 328) avrebbero dovuto entrare a pieno titolo nel meccanismo
produttivo ed erogativo dell’assistenza, a livello regionale,
mediante il ricorso ai modelli gestionali ed organizzativi di stampo
aziendalistico, o mantenendo la natura giuridica di diritto pubblico
(Aziende pubbliche di servizi alla persona), o trasformandosi nei più
flessibili schemi privatistici, maggiormente orientati al mercato del
terzo settore e svincolati dai più restringenti limiti sui
controlli. A questo proposito ricordiamo come sin dal 1988 la Corte
Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 1
della legge Crispi, nella parte in cui non prevedeva che le Ipab
regionali potessero continuare ad esistere assumendo la personalità
giuridica di diritto privato, qualora non avessero tutti i requisiti
di un’istituzione pubblica.
Sono
passati quindici anni. Qualcosa si è fatto, ma non quanto sarebbe
stato lecito attendersi su un tema che io considero di cruciale
rilevanza per il futuro delle nostre città.
Le
vicende di questi giorni sulla difficile situazione del bilancio
capitolino, al di là dei singoli fatti e delle specifiche
responsabilità che hanno portato alle condizioni attuali, se ancora
ce ne fosse bisogno, indicano con chiarezza un nodo strutturale delle
politiche pubbliche e dell’esercizio della cittadinanza in senso
lato. I rapidi e consistenti mutamenti economici, sociali e
demografici in atto impediscono di considerare la leva fiscale e, più
in generale, i tradizionali canali di raccolta del finanziamento
pubblico, come unica fonte di erogazione di quel complesso e
differenziato settore della spesa pubblica che definiamo politiche
sociali. Un settore su cui sarà estremamente arduo nel prossimo
futuro intervenire con tagli e che piuttosto, realisticamente, subirà
una crescente espansione. Come fare? Bisogna chiederselo e
chiederselo con più coraggio.
Una
prima, importante risposta viene dalle Ipab. Le Ipab hanno un cuore
antico, ma che sa rinnovarsi. Lo dimostrano le loro attività, sempre
più differenziate e calibrate sulla trasformazione dei bisogni. Lo
dimostrano la consistenza e la solidità dei loro patrimoni. Si
tratta nella quasi totalità di aziende sane, che rendono servizi
utili ed efficienti. Lo dimostrano le cifre, ad esempio il fatto che
oltre il 15% dei posti in residenzialità a livello nazionale è
gestito da Ipab o da Asp. Cioè rappresentano già oggi una parte
molto consistente delle risposte ai bisogni sociali emergenti sul
territorio. Insomma le Ipab costituiscono un asse strategico nel
futuro del sistema integrato dei servizi sociali.
Purtroppo
il tempo perso in questi anni non ha giovato a nessuno: il robusto
patrimonio di risorse espresso dagli istituti non è stato certo
utilizzato in modo ottimale. Qualche volta è stato trascurato, in
alcuni casi perfino saccheggiato. Il Documento del Coordinamento
nazionale che presentate oggi contiene molti spunti in questo senso.
Sulle Ipab, dopo la troppo breve stagione delle riforme sociali tra
la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, che ebbe proprio
come culmine l’approvazione della legge 328, è tornata una sorta
di indifferenza o di estraneità da parte del legislatore o delle
istituzioni. Come minimo c’è stata una reiterata trascuratezza del
loro potenziale; a volte – lo ripeto – un loro utilizzo a dir
poco strumentale. Si è affermata pertanto una difformità di
situazioni a livello nazionale, nelle diverse regioni, tra regione e
regione, che certamente impedisce l’efficientamento complessivo
del sistema. Il Decreto legislativo di riordino aveva fissato una
serie di materie ed adempimenti attuativi la cui competenza veniva
attribuita alle regioni, che vi dovevano provvedere con la propria
legge. Dalla data di entrata in vigore della legge regionale sarebbe
cessato il regime transitorio. Ebbene solo la metà circa delle
regioni – mi sembra siano dodici – ha legiferato sull’argomento.
Importanti regioni, come il Veneto non lo hanno ancora fatto.
Va
anche detto che il processo di adeguamento normativo delle Ipab
doveva essere accompagnato, o meglio, se possibile, anticipato, dal
recepimento a livello regionale della legge quadro, 328, di riforma
dei servizi sociali. Nelle regioni in cui questo è avvenuto, una
linea normativa per le Ipab è stata adottata, pur anche qui nella
troppa diversificazione di soluzioni adottate.
Qui
c’è il caso della nostra regione, il Lazio. Dicevamo, sono passati
quindici anni e la nostra regione ancora non ha né la sua legge di
rifermento dei servizi sociali accordata alla riforma nazionale, né
la sua legge di riordino delle Ipab. Abbiamo ancora solo due proposte
di legge, rispettivamente la 88 e la 122 (primi firmatari i
consiglieri Valeriani, Lena e Agostini), attualmente in discussione
al Consiglio regionale. Non è questa la sede, per me, per entrare
nel merito di un’analisi dei due testi. Voglio solo rilevare come,
dopo quindici anni, sul tema delle Ipab siamo praticamente ancora in
regime transitorio. E questo è inaccettabile.
Molte
sono le conseguenze negative che derivano da questo stato di
incertezza. Alcune le ho già dette; molte le avete dette o scritte
voi nel vostro Documento; vorrei solo sottolinearne un’altra:
l’assenza di un vero e proprio censimento di tutte le realtà
presenti a Roma e nel Lazio, con una chiara emersione del loro
profilo, delle loro finalità e delle loro attività.
L’assenza
di una rappresentanza associativa nazionale ha certamente pesato
sulla impalpabile interlocuzione di questi anni tra Ipab, Asp e
livelli di governo. Oggi questo gap
finalmente si colma. ANCORA diventa un soggetto di rappresentanza a
tutti gli effetti. Mi sembra un fatto di grande rilevanza ed estrema
positività. Non voglio entrare nel merito specifico delle tematiche
oggi tra voi in discussione, come la natura giuridica, la fiscalità,
la contrattazione. Ascolto con attenzione il dibattito e le proposte.
Nella sostanza concordo con le vostre richieste, perché aiutano a
definire una maggiore stabilità del sistema Ipab e – ma pare –
orientano ad una migliore efficacia della sua azione. Senza
dimenticare la libertà che a questo sistema deve essere garantito.
Anche la richiesta di annullare la sentenza della Corte
Costituzionale che vincola gli enti al patto di stabilità mi pare
legittima.
Quel
che vorrei dirvi in conclusione è che il mio Assessorato punta molto
sul lavoro delle Ipab per allargare le maglie di un sistema di
servizi sociali a Roma, ancora poco efficace almeno su due fronti:
quello del contrasto alle forme di povertà estrema, e quindi del
consolidamento di un sistema di accoglienza, che tenga anche in
debito conto il fatto che la Capitale di un paese proiettato sul
Mediterraneo attrae flussi di immigrazione molto più consistenti che
altrove; e quello dell’attivazione di una rete di monitoraggio e
protezione sul territorio della popolazione più fragile, in
particolare gli anziani.
Su
questi due fronti le Ipab ci possono aiutare tantissimo, sia in
termini di impiego di risorse, ma soprattutto in termini di
avviamento di servizi innovativi e specializzati. Penso alla
necessità di attivare una serie di interventi integrati a favore
degli anziani fragili, che coinvolgano una pluralità di soggetti e
che stimolino alla permanenza dell’anziano dentro i propri circuiti
vitali. Del resto, proprio in questo luogo, si sta operando la scelta
di trasformare una casa di riposo in un centro polifunzionale per la
terza età, anzi in un polo territoriale aperto, per la terza età e
per le famiglie in generale. Insomma uno spazio aggregativo per
tutti, ma che veda gli anziani, al tempo stesso, protagonisti e
destinatari di servizi.
Penso
anche alla creazione di spazi di accoglienza dignitosi, umani,
integrati con il quartiere, per chi vive forme di povertà estrema e
che necessità di percorsi di inclusione o di riabilitazione efficaci
e non occasionali. Sono convinta che il sistema delle Ipab, anche
nella veste futura, sia di Aziende pubbliche di servizio alla persona
sia di fondazioni private, abbiano tutte le potenzialità per fare
tutto questo e per farlo al meglio.
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